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Discorsi sul metodo – 8: Tom McCarthy

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TomMcCarthy

Tom McCarthy è nato a Londra nel 1969; il suo ultimo libro edito in Italia è C (Bompiani 2013)

* * *


Quante ore lavori al giorno e quante battute esigi da una sessione di scrittura?

Dipende dai periodi, la giornata di lavoro può andare da zero a dieci ore, senza particolari costrizioni. La maggior parte del tempo non scrivo, o scrivo frasi sparse. Quando scrivo per così dire “normalmente”, senza mettermi sotto pressione, mi sa che faccio sulle mille parole in un giorno, ma la verità è che non ho questo tipo di approccio, tendo più ad alternare periodi di non scrittura a periodi di lavoro molto, molto intenso.

Dove scrivi? Hai orari precisi?

Lavoro sempre e solo alla British Library, è un luogo eccellente per scrivere. Ho uno studio a metà con mia moglie e a volte lo uso, ma preferisco di molto la British Library. Da quando ho figli, poi, sono loro a dettare i tempi, anzitutto con la scuola, dunque mi sono adattato a orari borghesi, 10-17, senza stare sveglio la notte e addirittura senza bere e usare droghe mentre scrivo. La vita è curiosa.

Fai preproduzione o scrivi di getto?

Sì, certo, faccio diagrammi enormi al muro, grafici e schemi e pittogrammi, ho un approccio estremamente visivo e strutturalista. Prima di scrivere, e poi mentre lavoro, faccio continui diagrammi della trama, delle sottotrame, dei collegamenti narrativi e simbolici, e di tutti i livelli di significato del romanzo.

Quante riscritture fai? Tendi giù a buttare giù prima tutto o cesellare passo passo?

Cerco di lavorare anche cento volte per pagina, riscrivo e riscrivo ogni passaggio. Quando lavoro seriamente devo ottenere pagine che mi sembrano belle o mi sento un coglione che sta dicendo assurdità e cose inutili. mccarthy-tom

Scrivi più libri in contemporanea?

Sì, lo faccio; non due romanzi insieme, in genere un romanzo e un saggio, o un romanzo e un testo ibrido, cose così. Ad esempio C e Tin Tin e il segreto della letteratura li ho scritti in contemporanea, avevano forti affinità nascoste e si alimentavano a vicenda. Lavoro sempre a molti progetti in contemporanea, inoltre anche i miei progetti artistici sono per me né più né meno progetti letterari, anche quando li attuo interamente nel mondo dell’arte.

Carta o computer?

Computer, sempre. Nel ’93 avevo una macchina da scrivere della Stasi che avevo preso a un mercatino e la usavo pure, ma in generale utilizzo solo il computer, da quando c’è Internet poi il computer è diventato un oggetto davvero affascinante, imprevedibile, anche se ci sono gli sbirri dentro – dico Google, Facebook e gente del genere – e ciò ovviamente mi fa orrore.

Tic o rituali per favorire la concentrazione?

Il totale e più assoluto silenzio. Quando scrivevo Déjà-vu ascoltavo molta musica piena di loop per trovare un certo tipo di passo, ma non mi è più ricapitato.

Come hai esordito?

La mia storia è particolare, Déjà-vu era stato rifiutato da tutti gli editori a cui l’avevo proposto. Alla fine sono riuscito a pubblicarlo con un editore d’arte e venne distribuito, con una tiratura piuttosto esigua, solo nei suoi circuiti di riferimento, come bookshop di musei d’arte contemporanea e istituzioni artistiche. Tuttavia, molto lentamente ma anche inesorabilmente, il libro cominciò a trovare i suoi lettori e un suo seguito, fino a diventare, per così dire, un libro di culto. E giustamente, quando i grandi editori riapparvero per bussare alla porta, quell’editore non volle mai venderglielo, dicendo qualcosa tipo “eh no ragazzi, questa ormai è un’opera d’arte, mica editoria, cosa credete…”
Questo fatto mi ha portato a una riflessione, di fatto il mondo dell’arte anche se ha meccanismi diversi da quello dell’editoria, e ha anche i suoi bei difetti, è più libero, più ardito nell’esplorare forme e contenuti, voglio dire, con chi parlo di Pynchon o Burroughs? Ma con i miei amici artisti! Vado a casa loro e li becco a leggere Lautreamont e Virginia Woolf e i romanzi di Beckett – Beckett è cruciale, pensa anche ai collegamenti tra lui e Neumann… Mentre un sacco di scrittori, se li incontri e gli chiedi cosa stanno leggendo, scopri che leggono Franzen! Ti rendi conto, dove vuoi che vadano…

Come è cambiato il tuo modo di lavorare da allora?

I miei interessi sono gli stessi, anche se si evolvono e mutano, i punti focali si spostano. Mentre scrivevo C mi sono interessato a Kafka, Musil, Mallarmé, che conoscevo ma non con sufficiente profondità, e ovviamente mi stanno influenzando anche adesso che C è finito, cerco di ampliare sempre il tiro, creo problemi da risolvere, li risolvo, creo altri problemi…

Le opere che più ti hanno influenzato per quanto riguarda la pratica e il mestiere della scrittura.

Joyce sempre Joyce, l’Ulisse su tutto e tutti. Conrad, Melville, Shakespeare, ma vabbe’, questi sono ovvi, se scrivi in inglese e non ti hanno influenzato forse stai sbagliando qualcosa… Poi Hergé, l’autore di Tin Tin, ma anche David Lynch, Warhol, i confini tra discipline sono più porosi di quanto non si creda, e sempre più lo diventeranno, C ad esempio è fortemente influenzato anche da Cocteau, che questa cosa l’aveva ben capita, e prima di molti…

“Esisti” online?

La mia organizzazione, l’International Necronautical Society, ha un account twitter. Ha anche un Capo della Propaganda. Quando non ci sono eventi da annunciare o raccontare, quel twitter si mette a pubblicare brani di Moby Dick. La verità è che con un nome comune come il mio sono sovrarappresentato online, ci sono moltissimi Tom McCarthy su Internet, alcuni sono pure famosi, tu mi cerchi e vedi continuamente facce altrui, c’è una narrazione originale e finzionale, multipla e delirante che va avanti anche da sola, non potrei fare di meglio.

[8 – continua; le precedenti interviste possono essere lette qui, qui, qui, qui, quiqui e qui]


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