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Lavorare nell’editoria ai tempi di quando non ti pagavano

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di Christian Raimo

C’è una vicenda da addetti ai lavori che in questi giorni, per la sua ampiezza e la sua esemplarità, è diventata una vicenda anche da non addetti ai lavori.

Una serie di traduttori, redattori, e collaboratori a vario titolo stanno protestando in modo compatto e diretto contro le case editrici che hanno la spregevole abitudine a non pagare il lavoro.

È un fenomeno che coinvolge migliaia di persone, ma di cui è raro che si parli, in parte per la quasi totale mancanza di una cultura del lavoro culturale in Italia (per non parlare di una coscienza di classe), e per i conflitti d’interessi espliciti ed impliciti che esistono in un mondo come quello editoriale che è molto endogamico, che spesso si regge su rapporti informali, di amicizia, di stima, e in cui di fatto non esistono albi professionali, sindacati né contratti di categoria.

Dall’altra parte non pagare il lavoro editoriale è una patologia endemica, che pare essere registrata come tale solo nel momento in cui si manifesta una fase acuta, o un occhio esterno ne rileva la virulenza. Questa volta tutto è partito dai tweet che lo scrittore inglese Hari Kunzru ha mandato qualche giorno fa all’indirizzo di Massimo Coppola, direttore editoriale di Isbn, per chiedergli conto dell’anticipo non versato alla moglie Katie Kitamura (autrice di Knock Out, libro uscito per Isbn nel 2014, tradotto da Vincenzo Latronico).

Coppola non ha risposto, Kunzru ha insistito a chiedere sempre via twitter, fino a quando Coppola messo all’angolo è stato costretto a ammettere che la situazione di Isbn è al tracollo: non pubblica più da mesi e è senza liquidità. Prima l’ha fatto in via informale, e poi ha scritto una lunga lettera sul sito della casa editrice in cui spiega tutte le fasi ultime della crisi e l’attuale situazione debitoria.

Le scuse pubbliche, nel frattempo, erano diventate debite, perché Hari Kunzru aveva raccolto intorno alla sua rivendicazione privata quella di decine di ex-collaboratori che avevano cominciato a raccontare le loro storie di lavoro non pagato, e avevano dato un nome (un hashtag) a questa protesta: #occupayIsbn.

La storia l’ha ricostuita bene tre giorni fa su Wired Paolo Arnelli, sentendo vari traduttori, allargando lo sguardo a altre case editrici coinvolte in vertenze simili, oggi e nel passato prossimo: Zandonai, Voland e Castelvecchi (gruppo Lit)… e facendo notare come il vaso di Pandora si sia appena dischiuso.

In realtà la lettera di Coppola è stato in parte anche un tentativo di arginare con un tappo la fuoriuscita dal vaso:

Fino al 2013 tutte le persone sono state regolarmente pagate – ci sarà qualche eccezione, ma in linea di massima è così. Quindi diciamo che il 95% delle persone ha avuto, nell’arco di vita della società, quanto gli spettava.
Quel 5% merita le scuse che più volte gli sono state rivolte via email o altro genere di comunicazione. Ma non è mai abbastanza quando non si viene pagati, e dunque: scusateci ancora una volta. E se a qualcuno non abbiamo date risposte comprensibili o chiare, ci scusiamo due volte.
In questo momento Isbn e io personalmente stiamo subendo un attacco violento da parte di un gruppo ristretto di persone che ci insultano sui meravigliosi social media.

Coppola si giustifica dicendo che la crisi l’ha colto alla sprovvista e che per due anni (2013-2015) ha tentato di ripianare i debiti che si andavano accumulando, mettendoci del suo e del suo socio Luca Formenton, cercando finanziamenti da parte di altri investitori e sperando che continuando a fare libri avrebbe incassato soldi utili a liquidare il debito pregresso. Non c’è riuscito, e adesso Isbn ancora esiste e non è in liquidazione, spiega, solo per cercare una via d’uscita:

Ma la strada non sembra facile, tutt’altro. Faremo ogni sforzo, come abbiamo sempre fatto, per riuscire a pagare quel che dobbiamo. Mi scuso di nuovo con tutti quelli che hanno lavorato per noi e non siamo ancora riusciti a pagare. Ma l’unico motivo per cui la società non è ancora chiusa sta proprio nella speranza di riuscire a racimolare, in ogni modo possibile, le risorse per pagare gli arretrati.

Nonostante i toni concilianti, le motivazioni e le scuse di Coppola non hanno convinto molti. Sara Sedehi, editor e ufficio diritti storico di Isbn, su twitter diceva ieri:

Ho creduto a Isbn e l’ho costruita x 5 anni. Era una bella cosa? Sì. Ma ora l’UNICA solidarietà va ai non pagati.

Carolina Cutolo (autrice insieme a Sergio Garufi per Isbn di Lui sa perchéanticipo pagata solo in parte) scriveva su Facebook qualche ora fa:

Difendere Massimo Coppola (e il suo vittimismo strategico) perché qualcuno nel marasma dei creditori usa dei toni aggressivi è una presa di posizione inutile e ingiusta: siamo in tantissimi a non averlo mai aggredito verbalmente e ad aver sempre precisato che questa è la punta dell’iceberg di un sistema imprenditoriale/editoriale in cui la prassi è NON pagare e mettere il rischio imprenditoriale sulle spalle di collaboratori, redattori, editor, traduttori e autori. Da anni. Ed è anche ora di stigmatizzare pubblicamente questa prassi ignobile.
Se tutti i creditori denunciassero ORA gli editori che non li pagano, noi non appariremmo come carnefici (mentre stiamo solo rivendicando il compenso che ci spetta) e Coppola non avrebbe frecce all’arco di questa pantomima da povero unico editore vittima di un accanimento e capro espiatorio dell’editoria.
Se volete aggiungere qualcosa di sensato alla discussione, aiutateci a precisare che il fatto che Coppola non è l’unico e che tutto il sistema editoriale è malato NON E’ un’attenuante per Coppola, ma un meccanismo sbagliato che va cambiato innanzitutto nella percezione delle persone che si sono assuefatte a questa prassi, e che non può né potrai MAI essere giustificato dalla qualità delle pubblicazioni.

La posizione di Cutolo, si vede, non è quella di una rabbia generica e recente. Da anni l’industria editoriale convive con le sue cattivissime pratiche. E i tentativi di denunciarle, combatterle, provare a trovare soluzioni sono meritori quanto piuttosto isolati.

Cutolo stessa – dopo il mancato pagamento delle royalties del suo libro d’esordio, ormai un decennio fa – decise di fondare un sito di consulenza giuridica per scrittori alle prime armi, Scrittori in causa, che da anni continua a gestire in modo volontaristico.

Di fronte alla difficoltà di gestire moralmente e legalmente la questione (conviene pagare un avvocato per recuperare importi di tremila, cinquemila euro? conviene fare causa a un editore se il solo risultato che probabilmente si ottiene è quello di farsi una fama di piantagrane? come denunciare pubblicamente queste cattive prassi generalizzate se la paura di denuncia per diffamazione è sempre dietro l’angolo?) i traduttori e i redattori hanno provato molte soluzioni anche inventive, aprendo per esempio un annetto fa un blog, intitolato Editori che pagano – una specie di pagina di denuncia al contrario, che voleva fare luce per contrasto sulle zone d’ombra del lavoro editoriale.

Ma usare la vicenda Isbn come sintomo non è scontato. Cutolo per esempio sottolinea un punto essenziale: non è una questione di vittimismo. Ma forse di mancanza di coscienza di classe. Non sono semplicemente vittime i lavoratori non pagati, non è una vittima Coppola nonostante – nel flame di tweet contrapposti – i toni alle volte potessero sembrare quelli di una lapidazione.

Se si fa la tara alla dimensione emotiva, pure scomposta, restano sul piatto due temi di non poco conto: chi tutela i diritti dei lavoratori e i rischi di chi fa impresa?

Non è per niente semplice. La debolezza dei traduttori in questo caso è clamorosa per il fatto che si tratta di persone che lavorano in un regime di diritto d’autore, spesso come partite iva, le cui prestazioni non sono sottoposte ad alcun contratto collettivo. Solo qualche anno fa è nato il sindacato Strade (sindacato traduttori editoriali), ma proprio per le condizioni strutturali di questo lavoro, il suo compito si è dimostrato soprattutto quello di gestire delle forme minime di mutuo soccorso e di fare informazione di settore.

Non essendoci un tariffario minimo, non potendoci essere un albo professionale, non essendoci una cultura politica capace di prendersi in carico questi problemi, le risposte istituzionali (del Centro per il libro e la lettura, del ministero della cultura) spesso assomigliano ad attestati di solidarietà e manifestazioni di buone intenzioni: molto poco. Per esempio qualche mese fa il ministro Dario Franceschini dichiarò pubblicamente che si sarebbe impegnato a trovare il modo di riconoscere ai traduttori una parte delle royalties dei libri – belle parole ma nessun atto pratico.

Allo stesso modo Re.re.pre. (la rete dei redattori precari) fa una fatica improba e quasi solitaria a svolgere la controparte nei confronti di grandi società come Mondadori o Rcs, quando queste non rispettano i contratti di lavoro.

C’è una notizia importante che è passata in sordina. L’inchiesta dell’ispettorato del lavoro sui lavoratori precari di queste due case editrici ha portato a un’inaspettata conclusione: si è imposto alle aziende di trasformare molti contratti di collaborazione a progetto in contratti di collaborazione a tempo indeterminato.

A quest’ingiunzione Rcs Libri ha risposto impegnandosi ad assumere dal primo luglio prossimo ventuno lavoratori attualmente impiegati con contratto a progetto. Mondadori, invece, ha presentato ricorso contro il verdetto dell’ispettorato. C’è da domandarsi, certo, cosa accadrà quando, come pare, tra poche settimane Mondadori e Rcs saranno la stessa cosa.

Ce n’è un’altra di notizia, ancora meno diffusa, che risale alla fine dell’anno scorso, e la trovate in un interessantissimo post di re.re.pre che vale la pena leggere per intero.

Si sintetizza infatti la storia (la storia sì, sei anni) di denuncia e analisi del lavoro sottopagato che i redattori precari insieme a San Precario hanno curato fino a coordinarsi di recente con la Cgil, che pare aver portato a un abbozzo di contratto nazionale per i lavoratori atipici dell’editoria, fatti rientrare nel contratto nazionale dei grafici, che prevede due punti importanti:

a) Estensione del fondo sanitario integrativo a spese degli editori anche ai lavoratori atipici, un’intesa raggiunta appunto già al rinnovo precedente, ma mai applicata.

b) Impegno da parte degli editori di stabilire entro giugno 2015 trattamenti economici minimi per le prestazioni in collaborazione, in pratica un tariffario, che oggi, con l’apertura da parte dei falsi cocopro di un tempo passati sotto ricatto alla partita iva, diventa obiettivo di estrema necessità.

Purtroppo, nonostante questa proto-sindacalizzazione, le condizioni di lavoro nell’editoria italiana spesso restano quelle di sfruttamento puro.

Vogliamo citare la vicenda di Castelvecchi che è forse ancora più paradigmatica di quella di Isbn? Le denunce esplicite o sottaciute di anni di pagamenti miseri, ritardati, mai avuti, hanno avuto una minima eco solo dopo che Federica Graziani e Arianna Lodeserto hanno scelto di rendere eclatante la loro protesta, autobattezzandosi Volontari Involontari.

Il loro caso è quello di due persone che dopo aver accettato una impegnativa traduzione pagata molto poco, hanno sperimentato che quel molto poco era proprio niente. Centinaia di telefonate e mail non sono servite a nulla, e allora da un paio di mesi a questa parte si sono fatte trovare alle presentazioni della Castelvecchi per volantinare, informando su quello che c’è dietro i libri che vengono promossi. L’hanno fatto anche alla presentazione del libro di Fausto Bertinotti, Colpita al cuore. Perché l’Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro (mostrando forse il paradosso di tutta la questione) e al Salone del libro, e solo a fronte di questo blitz hanno ricevuto il bonifico dovuto.

Da Castelvecchi infatti non è giunta nessuna replica ufficiale, e Volontari Involontari hanno continuato la loro denuncia.

Quale è la morale di questa storia? È possibile che rivendicare i propri diritti debba implicare un grado di esposizione di questo tipo?

Dall’altra parte, la lettera di Massimo Coppola evidenzia anche un’altra difficoltà. Quella di case editrici di progetto di stare in piedi, senza ricorrere, di fronte ai mali estremi, a estremi rimedi, compreso quello dello sfruttamento dei lavoratori. Ieri, nelle discussioni su social

uno scrittore storico di Isbn, Omar di Monopoli, provava a contestualizzare la vicenda #Occupay, in un post che vale la pena leggere per intero capire quanto spesso forma di organicità, di sintonia culturale, di semplice affetto facciano parte anche dei rapporti tra editore e le persone che contrattualizza:

In qualità di autore italiano tra i più “anziani” (e longevi, se permettete) del catalogo delle edizioni ISBN, in questi giorni al centro di un discussissimo flame che come al solito ha visto guelfi e ghibellini digitali dare addosso all’untore di turno, ci sentiremmo di aggiungere due parole al bell’intervento di Massimo Coppola sul sito della casa editrice: abbiamo avuto l’onore di contribuire sin dall’inizio a questo progetto editoriale originale e innovativo sulla cui qualità crediamo davvero in pochi possano obiettare, e altresì riteniamo sarebbe davvero da ingrati (oltreché miopi) considerare il medesimo solo guardando al mero strascico d’insolvenza economica che ne sta decretando in queste settimane la precoce e (a quanto pare) inevitabile fine. Lo diciamo tra l’altro senza alcuna posa intellettuale e anzi precisando che siamo noi stessi parte lesa, giacché apparteniamo a quella folta schiera di autori che ancora attende alcuni emolumenti dalla casa editrice col codice a barre in copertina.
Eppure l’ovvia incazzatura per quei pochi spiccioli ancora in sospeso non può offuscare l’entusiasmo, la passione e l’apertura che ci sembra abbiano corroborato quell’idea imprenditoriale: quando chi scrive venne contattato da Coppola, Papi e Formenton, a cui avevamo inviato il nostro primo manoscritto, la neonata casa editrice stava già tracciando un proprio personalissimo solco all’interno di un mercato librario stantio e pericolosamente ripiegato su sé stesso (come di fatto si è dimostrato di voler continuare a essere). In ISBN, i nostri lavori sono stati subito ben accolti, efficacemente discussi ed editati, rivisti, limati e, i primi tre, persino pagati ragionevolmente e con svizzera regolarità; la loro diffusione ci ha permesso di girare in lungo e in largo la penisola entrando in contatto con realtà culturali  e con modelli ispirativi che non ci saremmo mai sognati di conoscere e ci hanno fatto incontrare con il pubblico, quello vero, quello che – assurdo pensarlo oggi – ancora entrava in libreria a comprare volumi!
Certo, proprio qualche mese fa, mentre le prime avvisaglie del naufragio si facevano evidenti, abbiamo allentato i rapporti con Milano sino ad un (consensuale e civilissimo) abbandono, ma non potremmo mai recriminare niente a chi per un po’ di anni ci ha permesso di giocare a fare le rockstar: trasferte pagate con rigore, qualche discreto benefit, corsie privilegiate negli ambienti che contavano e qualche attenzione particolare sui media. Ci si sentiva cullati e stimolati alla sfida, in ISBN. E non era cosa da poco. Certo, i tempi sono poi velocemente cambiati e l’intero sistema è collassato, però sarebbe davvero comico oggi identificare nella giovane e scaltra ISBN l’epitome di un malaffare che ha desertificato l’industria culturale di questo nostro sfortunato Belpaese. Insomma, muso duro davanti a chi non paga, poco ma sicuro, non ci sogneremmo mai di suggerire ai nostri colleghi autori e traduttori in credito di stipendio di mordere il freno e abbandonare la battaglia (perché, ripetiamo, è anche una nostra battaglia), ma stiamo attenti a chi si è impantanato in una palude che ha origini antiche e a chi invece ha fatto e continua a fare il furbo per difendere il proprio sepolcrale status quo. Massimo non è diventato certo ricco coi suoi/nostri libri. E la prova ineluttabile di questo sta nel fatto che quando il business funzionava i pagamenti erano regolari ed eseguiti con scrupolo impressionante, e possiamo testimoniare che non si badava a spese per il bene di un autore ma anche e soprattutto per quello del suo lavoro. Pertanto, non diciamo sciocchezze. A morte ISBN, viva viva ISBN!

Oppure Nicola Giuliano, il produttore di Paolo Sorrentino, lo difendeva a spada tratta:

Soprattutto che ci sono modi diversi di farlo, l’imprenditore, diciamo 3. Il primo può essere veramente criminale. Apri una azienda, ti paghi lautamente, prendi commesse e anticipi, assumi impegni con dipendenti e fornitori. Accumuli debiti. Per un po’ ti fanno credito, sopratttutto i fornitori. A un certo punto porti i libri in tribunale. Fallisci. I tuoi creditori non troveranno nulla. Tu hai messo il malloppo al sicuro. Dopo un po’ riapri con un altro nome o un prestanome, spesso nello stesso settore. nel paese la memoria è corta e la giustizia segue vie tortuose grazie a leggi concepite per farle perdere ogni rotta. Il secondo è quello che punta alla massimizzazione del profitto. Ogni tua azione e scelta è destinata a questo scopo. Magari avrai pochi dubbi e meno scrupoli, ma rispetti la legge e il fisco. Vuoi guadagnare. Chi può darti torto.
Il terzo modo è quello di chi, nella sua scala di priorità ha in mente innanzitutto il prodotto che fa, la sua qualità, il suo valore; poi la sua azienda in sé, il fatto che stia in salute e che quelli che ci lavorano la sentano come una seconda casa, che ci stiano bene e siano fieri di come è e di quello che fa. Per questo tipo di imprenditore il profitto personale viene molto dopo. Il mio amico Massimo Coppola appartiene a questa terza categoria.

Altri quelli che hanno rimproverato a Coppola senza appello non è tanto l’incapacità imprenditoriale o il dolo, ma soprattutto di aver comunicato la gravità della situazione così in ritardo. Cosa temeva? Di squalificare il marchio? Non è successo comunque, se lui stesso ammette che di fronte alla crisi, i finanziatori e le banche sono stati ferocemente sordi come nessun altro?

Se Coppola è ingiustificabile per come ha trattato i suoi lavoratori, giocando più che d’azzardo, è anche vero che la morte di Isbn non rende felice nessuno.

Qualche anno fa la crisi editoriale, in una delle sue ondate più violente, investì le case editrici di saggistica universitaria. A soccombere fu, tra gli altri, quello che si può considerare uno dei migliori progetti editoriali italiani degli anni novanta: Meltemi.

Luisa Capelli, che ne era alla guida, e che aveva sempre gestito la casa editrice solo con lavoro qualificato, si dovette arrendere, interrompendo le pubblicazioni e chiudendo gli uffici.

Se rispetto a Isbn o ad altri editori in crisi, aveva evitato gli strascichi penosi e le cause legali, e conservato la credibilità, non era riuscita però a salvare il catalogo e il progetto.

Cosa ci insegna questa storia? Che di fronte alla crisi molti imprenditori, per malafede, insipienza, scompostezza, necessità, scaricano il rischio d’impresa sui soggetti più deboli: i lavoratori, spesso atipici, precari. E questa pratica non viene giudicata nemmeno scorretta: la lettera di Coppola in questo senso è trasparente quando ammette che negli ultimi due anni sapeva che non avrebbe potuto pagare e che – senza nessun aiuto esterno – sarebbe andato tutto in vacca. A un certo punto dichiara, in una parentesi:

Se gli stampatori – per fare solo un esempio – fossero sui social, avrebbero ragioni ben più solide per lamentarsi. Probabilmente però, gestendo delle società, hanno una idea più ampia delle motivazioni che possono portare una società come la nostra ad avere difficoltà finanziarie.

non rendendosi conto che forse se uno stampatore crea una società deve mettere in contro un rischio d’impresa (se non ha i soldi, fallisce; se i pagamenti sono in ritardo chiede aiuto alle banche), mentre un lavoratore è in una posizione diversa (se non ha i soldi, non mangia; se i pagamenti sono in ritardo, chiede aiuto ai genitori) o forse non sembra così perché lavora a partita iva?

Il punto dolentissimo – e qui la lettera di Coppola si rivela una testimonianza molto lucida e feroce – è che il rischio d’impresa in un settore delicato come quello editoriale forse ha bisogno di investimenti pubblici e privati più ampi e lungimiranti.

Perché quando Coppola scrive:

La chiusura della Fnac di Milano, che ci portava da sola il 2/3% del fatturato, è solo un semplice esempio delle ripercussioni che una crisi (generalizzata e di mercato) può avere su una società come la nostra.

dimostra l’intelligenza di chi si rende conto di essere parte di una crisi di sistema.

Che fare allora? Certo non assistenzialismo, ma magari un sostegno mirato come per esempio accade in molti paesi europei? Borse per le traduzioni e per i tirocini nelle case editrici, un rapporto tra università e editoria che non sia clientelare o parassitario, finanziamenti per i progetti di qualità…?

In questo modo forse anche le condizioni del lavoro culturale sarebbero automaticamente più tutelate ma anche più trasparenti.

E poter difendere i propri diritti – o anche semplicemente per instaurare un dialogo tra lavoratori e datori di lavoro – non si dovrebbe essere costretti a usare dei flame su twitter.

Ps. È molto strano come, nonostante la deflagrazione mediatica di questa vicenda sia coincisa proprio con i cinque giorni del salone del libro a Torino, di questi temi – lavoro editorale e diritti annessi, per esempio – non si sia parlato se non al bar o nei corridoi o nei blitz di Volontari Involontari, e in nessun incontro del circa migliaio in programma. Questo è un problema.


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