Pubblichiamo un articolo di Cristò sull’uso della seconda persona nella novella «La luce prima» di Emanuele Tonon e nel racconto «Profezia» di Sandro Veronesi.
di Cristò
Sarebbe bello stilare una lista completa della letteratura scritta in seconda persona. Nei corsi di scrittura creativa (come la chiamano) si sprecano parole, ore dilezioni sulla prima e sulla terza, sulle differenze d’uso e di potenziale narrativo dell’una e dell’altra; su come possa essere strategico mettere l’io narrante in bocca a un personaggio secondario che funga da osservatore del vero protagonista (alla maniera di Melville, dicono) o su quanto possa semplificare alcuni nodi narrativi l’uso corale della terza persona che favorisce al lettore uno sguardo dall’alto di una situazione complessa. Sulla seconda persona, invece, si tace quasi sempre. Il tu mette spesso a disagio gli scrittori perché il tu è il peggiore nascondiglio che l’io possa scegliere.
Il tu individua il bersaglio con precisione, punta il dito verso il colpevole: lo scrittore e, conseguentemente, la sua scrittura.
Lo lascia intendere più che bene Emanuele Tonon nella sua novella La luce prima (Isbn 2011), lo afferma con forza Sandro Veronesi in Profezia (il primo racconto della raccolta Baci scagliati altrove, Fandango 2011). Quello di Tonon è il tu dell’invocazione, della (smisurata) preghiera; quello di Veronesi e il tu del monito, dell’oracolo, della profezia (appunto). Entrambi, però, sono il tu della confessione e della nudità, la resa dell’uomo difronte al dolore della morte di un padre (Veronesi) o di una madre (Tonon).
L’incipit di Veronesi non lascia dubbi: «Io so chi sei, Sandro Veronesi, conosco l’animo tuo», io e tu corrispondono ma sono spostati nel tempo. Sandro Veronesi racconta a se stesso quello che farà, il modo in cui affronterà la malattia terminale di suo padre. Lo racconta nei minimi dettagli non risparmiandone anche il cognome dei medici a cui si rivolgerà, le medicine che dovrà somministrare, i commenti del medico che non riuscirà a capire perché il suo padre morente non risponda alla terapia del dolore. Dettagli agghiaccianti che significano solo una cosa: tutto questo è già successo. Il tu serve ad allontanarsi dal fatto, anzi ad allontanare il fatto stesso in un futuro che è irrimediabilmente già avvenuto.
L’incipit di Tonon sa essere anche più crudele: «Mi hai chiamato, prima di continuare a morire.» Il tu è la mamma, la seconda persona che, scomparsa, annulla la prima. L’io dichiara la sua resa nell’assenza improvvisa del tu. Anzi, si accorge del tu solo in sua assenza, invoca la seconda persona come si invoca soltanto l’Amore, rende il suo linguaggio aspro e morbido eliminando le sfumature, dice come stanno le cose, per la prima volta si spoglia davvero fino in fondo e non inpreda all’estasi, ma annientato dal dolore, illuminato. Non teme le parole, al tu deve dire tutto com’è, perché il tempo che gli rimane per dirlo è già finito. Allora anche la scrittura dello scrittore nudo si spoglia e si mostra per quello che è: tramite, messaggero, divinità che sola può tentare di ucronizzare la realtà. La scrittura scalcia nella pancia dello scrittore e lo tira indietro, lo salva sul bordo dell’abisso come lo scrittore aveva scalciato nella pancia della sua giovanissima ragazza madre decisa al suicidio («Volevo solo morire, allora, e scrivere mentre morivo.» dice Tonon alla seconda persona, sua madre).
Profezia e La luce prima mi hanno fatto davvero male, mi sono sentito messo con le spalle al muro come figlio e come scrittore che è, probabilmente, tutto quello che sono.