Ringraziamo vivamente i ragazzi della redazione di Sentireascoltare, che ci hanno concesso di pubblicare parte di una lunga intervista a Simon Reynolds, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro per Isbn, Retromania. Vi segnaliamo inoltre che domenica 18 settembre lo scrittore e critico musicale inglese sarà ospite del Festival Arca Puccini a Pistoia, dove incontrerà il pubblico e parteciperà a un question time insieme a John Vignola e il gruppo di Nevrosi.
Per conoscere il programma del Festival Arca Puccini Caligari 2011 visita il sito di Nevrosi; per conoscere le altre date del tuor di Simon Reynolds in Italia visita il sito di Isbn. L’intervista per intero si trova invece sul sito di Sentireascoltare. Buona lettura e buon ascolto.
Simon Reynolds (Londra, 1963) è nell’immaginario di chi consuma critica musicale «quello che ha inventato il termine post-rock». È considerato uno dei massimi critici contemporanei, influente anche in ambito accademico (popular music studies e dintorni), indicato dagli addetti ai lavori come perfetto esempio di integrazione tra puntiglio metodologico e capacità narrative. Tra i suoi lavori, in cui è spesso evidente uno sfondo teorico mutuato dalla teoria critica e dai cultural studies, vanno citati almeno i basici Energy Flash: A Journey Through Rave Music and Dance Culture (1998; ed. it. Generazione ballo/sballo, Arcana, 2000; rist. 2010 Energy Flash), in cui si è occupato delle sottoculture elettroniche emergenti in Inghilterra, dalla house al rave e oltre (è l’harcore continuum ragazzi), e Rip It Up and Start Again: Post Punk 1978-1984 (2005; ed. it. Post-Punk, Isbn, 2006), monumentale ricostruzione storico-critica della new wave.
Reynolds ha cominciato a scrivere di musica sulla fanzine autoprodotta Monitor (1984) ed è poi passato alla stampa regolare, prima su «Melody Maker» e, poi come freelance di lusso, su «Mojo», «Uncut», «The Wire», «Village Voice», «New York Times». Il suo ultimo libro è Retromania, un saggio sulla vera e propria “ossessione del passato che sembra permeare la cultura pop contemporanea”, uscito a giugno per Faber&Faber e di cui esce in questi giorni l’edizione italiana. Il suo blog personale è blissout. Questo invece il blog italiano dedicato a Retromania, curato da Isbn: retromania-isbn.
Fine della musica? – Abbiamo avuto il piacere di intervistare via Skype Michele Piumini. Ci ha parlato del suo lavoro di traduzione per i tuoi libri e ci ha dato molte gustose anticipazioni di Retromania, la cui versione italiana uscirà il 15 settembre come sempre per Isbn. Fin dal titolo e dai lanci sul web il libro ci ha subito interessato; molto semplicemente, perché il suo tema è la ‘fine della musica’ (e delle arti in generale). Nel senso pienamente post-moderno di fine della Storia, del progresso come freccia orientata verso il futuro, fine del nuovo. Michele ci ha fatto capire come il libro sia, da questo punto di vista, piuttosto pessimista. Ci rivolgiamo sempre più al passato della nostra memoria per trovare ispirazione e – soprattutto – prendere interi blocchi di materia musicale: abbiamo avuto il revival degli Ottanta, dei Novanta, abbiamo rivalutato il Kitsch, i b-movie e così via. In musica adesso c’è l’Hauntology, con il glo-fi, la chill-wave, l’hypnagogic pop, tutte forme di sublimazione della nostalgia di un certo passato musicale. Ecco, da un punto di vista strettamente pratico, la big question è: cosa succederà quando i nostri figli o i loro figli si troveranno di fronte come uno possibile revival un “revival del revival”?
Come parte delle mie ricerche per Retromania ho letto The End of History di Francis Fukuyama; non il libro del 1992, proprio il saggio originale, scritto poco prima della caduta del Comunismo e che in un certo senso la anticipava. Quello che mi ha più sorpreso è stato scoprire quanto il saggio fosse ambivalente: non è assolutamente una trionfalistica celebrazione della vittoria del capitalismo liberale contro il socialismo. Il paragrafo conclusivo immagina secoli e secoli di noia gettare la loro ombra sul nostro futuro: un’era post-ideologica di compiaciuto consumismo. Fukuyama pensa che finiremo con il re-inventarci scismi ideologici giusto per rendere la nostra vita più interessante, usandoli come un defibrillatore per fare ripartire il cuore della Storia. L’equivalente musicale di questa idea di una infinita fine della storia è una delle cose su ho più meditato in Retromania, come quando scrivo che la pop music finirà “non con uno schianto [è una citazione da The Hollow Men di Eliot, ripresa da molti e ad esempio da Richard Kelly nel suo film-corto circuito pop Southland Tales; ndr] ma con un box set i cui quattro dischi che non avrai mai il tempo di infilare nel lettore”. Uno stato di entropia assolutamente piacevole, in cui possiamo usufruire di tutti i capolavori di cinque decadi di storia del rock, come pure di tantissimi tesori perduti e di estemporanee scoperte marginali provenienti dal passato, in cui possono nascere continuamente nuove band per offrire infinite sottili ricombinazioni che rimescolino le carte del catalogo di stili offerto dal passato. L’Ipod e Internet, con la loro sovrabbondanza di scelte, hanno aperto la strada ad una condizione post-ideologica del fandom musicale, in cui siamo tutti eclettici e galleggiamo tra i generi, avanti e indietro tra i decenni, senza mai prendere davvero una posizione, senza mai concentrarci davvero su un particolare genere, scena, epoca. La mia curiosità intorno alla musica mi conduce verso l’eclettismo, ma il mio carattere mi fa tendere verso l’ossessione. Puoi vedere in azione questa mia vera e propria lotta interiore lungo tutto Retromania: da una parte, mi sento profondamente attratto da quella che la giornalista di punk del NME Julie Burchill ha sprezzantemente descritto come “rock’s rich tapestry” (la ricca tappezzeria del rock); dall’altra, credo, come del resto la Burchill, che l’essenza del fandom musicale sia il fanatismo (è quello che significa fan, fanatico). La musica insomma dovrebbe essere questo, dovrebbe essere una monomania, una devozione e un credo dedicati ed esclusivi. Per me, l’Ipod shuffle rappresenta una specie di incessante e promiscuo galleggiare, un andare alla deriva, senza scopo né passione.
C’è qualcuno (di nuovo) lì fuori?– Riesci a trovare oggi qualche forma musicale davvero nuova? La dimensione del cambiamento musicale sembra avere cambiato scala, diventando sempre più piccola. Oggi, per esempio, siamo costretti ad esaltarci (se proprio vogliamo esaltarci per qualcosa) per un minuscolo mutamento stilistico all’interno della carriera di un produttore dubstep, sempre all’interno della sua estetica dubstep… È così difficile cambiare oggi? Sempre che cambiare faccia rima con rinnovarsi e rinnovare…
Mi capita di incontrare cose che mi colpiscono e mi sembrano “nuove”, “relativamente nuove”, “abbastanza nuove” (di solito c’è sempre un qualche modificatore prima di nuovo). Ma tendono ad essere sporadiche e isolate, piuttosto che collegate a generi e a una occorrenza più generale. Negli anni Novanta c’erano interi generi o movimenti che avanzavano come massicce ondate di innovazione, e queste maree di novità si sono sostenute tra loro per anni, in alcuni casi per una intera decade. Il rave potrebbe essere un esempio, specialmente la linea che dall’hardcore arriva alla jungle, allo UK garage e al 2step, tutte fasi interne ad una stessa macro-scena/macro-genere. O l’r’n’b, che si è dimostrato sorprendente anno dopo anno, se segui la linea che da Teddy Riley passando per Timbaland arriva ai Neptunes. E si può dire che anche l’hip hop e la dance hall abbiano rappresentato una costante fonte di innovazione da metà degli Ottanta fino a tutti i primi Duemila. Con buona probabilità si può dire lo stesso del metal, anche se io non l’ho mai seguito da vicino, ma sicuramente anche agli occhi di un outsider è sembrato mutare sensibilmente per tutti gli Ottanta e Novanta. Nel decennio scorso, al contrario, è sembrato che i generi principali siano rimasti piuttosto statici, e che solo qualche volta, in mezzo a una grande quantità di lavori poco avventurosi, fosse possibile trovare dei lampi isolati di novità. Come ho detto, trovo che l’r’n’b dei Duemila non sia stato anche solo lontanamente innovativo come quello con cui Timbaland rivoluzionò l’intera scena. Eppure, in anni recenti, sono rimasto di stucco davanti a cose come Umbrella di Rihanna e Single Ladies di Beyonce, due pezzi che mi hanno davvero impressionato. Sul dubstep… Preso nell’insieme, mi sembra un’estensione degli anni Novanta, una sorta di coda della discendenza che dalla jungle ha portato verso lo UK garage. È un genere che produce ancora e con regolarità materiale eccitante, che si propone con un suo feel di novità: certi pezzi di Zomby, Cooly G, James Blake,Ramadanman e pochi altri. Penso che attualmente la frangia wobble della scena [wobble è l’etichetta onomatopeica che indica i bassi super-treble di certo dubstep; ndr], che gli ‘intenditori’ disprezzano perché conservatrice, rozza e machista, sia in realtà l’area che sa più di nuovo all’interno del dubstep. Il beat dell’halfstep e quelle bassline meccaniche e stridenti degli oscillatori sono genuinamente nuove. Semplicemente, sono davvero sgradevoli! Potrebbe anche piacerti un blast repentino di “filthstep”, prendendolo come una piacevole dose di abietto e ringhiante rumore, ma per nessuna ragione al mondo mi andrebbe di passare un’intera serata ascoltando Borgore e Stenchman. In altri ambiti della musica elettronica, penso che produttori come Ricardo Villalobos e Actress stiano facendo cose davvero interessanti, per quanto, ancora, il loro lavoro suoni come un’estensione della minimal house e del glitch e di altre cose dei tardi anni Novanta. Una cosa che mi sembra invece piuttosto epoch-defining, identificativa e modellativa di questo momento musicale, sono le sperimentazioni con la voce, la vocal science: varie forme di testurizzazione digitale delle voce come l’Autotune, l’accelerazione o il rallentamento dei vocals, il micro-editing dei sample vocali e la creazione di nuovi pattern. Questo avviene in tutto il panorama musicale, dal livello ultra-underground del footwork di Chicago, fino all’elettronica hip spinta da Pitchfork e FactMagazine (Burial, James Blake), alla witch house dei Salem e al cuore del pop mainstream con Black Eyed Peas e Ke$ha. Le origini di questo fenomeno si possono fare risalire agli anni Novanta, a produttori garage come l’americano Todd Edwards e produttori jungle come l’Omni Trio, indietro fino a Nitro Deluxe, questo act electro/house newyorkese che faceva cose pazzesche con i sample vocali usati come note di una tastiera, anno 1987. Ma la vocal weirdness sembra essere ancora oggi un’area con grosse potenzialità.
Saturazione del linguaggio?– Questo impasse musicale generalizzato potrebbe essere anche un impasse propriamente linguistico? Se la musica è arrivata in qualche modo alla fine, non potrebbe essere perché non siamo più in grado di creare nuovi idiomi o anche solo sotto-idiomi musicali (per non parlare di veri e propri nuovi strumenti o modi di fare musica)? E come possiamo giudicare la storia ormai cinquantennale di tutto quel del filone chiamato free improvisation o improvvisazione non idiomatica (da Derek Bailey in avanti) che ha cercato proprio di uscire dalle gabbie dei generi e degli stili – un fallimento? Personalmente penso che sia stato un approccio produttivo fino a un certo periodo e che poi si sia in qualche modo standardizzato, automatizzato, allo stesso modo di come si automatizza la peggiore pop music su scala industriale. È il dark side di molta della cosiddetta avant-garde music…
Non mi sono mai appassionato alla musica improvvisata. Trovo la sua filosofia abbastanza sospetta, per quanto mossa da buone intenzioni, perché non credo che tutta questa libertà assoluta e questa mancanza di limiti facciano davvero la felicità di qualcuno o possano portare a fare della buona musica, della buona arte. Disciplina e concentrazione sono la chiave della soddisfazione emozionale e psicologica, restrizioni e regole sono vitali per la creazione artistica. Basta fare un paragone tra i primi fantastici pezzi hip hop e rave, realizzati con un equipaggiamento veramente basico come l’MPC Akai o programmi come Cubase, e la musica elettronica dei Duemila, molto più complessamente strutturata e lavorata, per vedere come, quando hai meno possibilità, meno agevolazioni a tua disposizione, meno memoria nel campionatore, puoi raggiungere risultati molto più potenti. Tornando all’improvvisazione, in teoria è un approccio che dovrebbe aprire questo infinito mondo di possibilità sonore; ma nella pratica i performer tendono spesso a cadere in un vocabolario di pernacchie, cigolii, crepitii, sirene, ecc. alla fine piuttosto omogeneo e prevedibile. Sono d’accordo conBrian Eno quando dice che l’intera storia del free jazz e dell’improvvisazione non idiomatica fuori dal jazz si è dimostrata fuorviante. Personalmente, preferisco ascoltare la jazz fusion degli anni Settanta, anche le cose più pompose e massimaliste che sono venute fuori dall’approccio di Miles Davis. Lo stesso tipo di omogeneità affligge altri movimenti musicali che hanno cercato di andare al di là di ogni regola, verso uno spazio astratto. È successo alla musica concreta e all’elettronica del secondo dopoguerra. Io amo molto alcune di queste musiche, così tanto da riuscire ad apprezzarne anche tutti gli esponenti di terza categoria, ma è davvero sorprendente constatare quanto velocemente questa cosiddetta “musica infinita” abbia prodotto i suoi cliché e i suoi suoni standardizzati.