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A proposito dell’Almanacco

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L’uscita per Isbn dell’Almanacco Illustrato del calcio ’80, gustoso sin dalla carta frusciante e profumata di colla, nella grafica stra-vintage che richiama i vecchi album Panini, nelle foto sgranate o limpide che si susseguono come un arcobaleno storico – un oggetto che su un lettore e-book perderebbe quasi tutto – ha provocato più di un tuffo al cuore di chi legge. Si suppone appassionati, ma anche chi continua a pensare che il fuorigioco sia una regola incomprensibile può scovare lampi di costume andato, riconoscere volti scomparsi nel tempo, o vedere com’erano facce tutt’ora ossessivamente davanti ai nostri occhi. Subito dopo la commozione, si fanno inevitabilmente strada osservazioni multiple sui cari vecchi tempi andati. In realtà l’Almanacco è fatto proprio per questo: suggerisce in ogni pagina, nello sguardo sognante di un Baggio diciottenne o di un Causio versione gangster da piscina un impietoso confronto tra il come eravamo e il come siamo.

Tutto questo perché il calcio italiano degli Ottanta è visto come un periodo magico e colmo di personaggi leggendari, aneddotica a profusione etc etc. «L’innocenza perduta delle foto scattate in campo e dei primi sorprendenti fuoricampo: calciatori al mare, in famiglia, in discoteca. Campioni e bidoni, buoni e cattivi, belli e brutti. Come eravamo, come non saremo più», queste le parole che campeggiano sulla prima pagina dell’Almanacco prima di accompagnarci nelle paradisiache immagini perdute dei Barbadillo, delle Lory del Santo in mutande e maglietta bianconera, del «tacco di Dio» Socrates, e del Milan sponsorizzato sulle maglie dagli Oscar Mondadori. Poi ci guardiamo intorno, accendiamo la tv, palla al centro, ecco le partite di questi anni, e ci sembra davvero di essere caduti in un qualche decadente basso impero.

Nelle letture critiche verso il calcio contemporaneo in cui ci si imbatte, però, si legge tanta nostalgia e poca analisi. In realtà con qualche sforzo si può capire cosa è successo, scoprire che niente ma proprio niente accade per caso, anche a proposito di pallone; e poi che non era tutto oro quello che luccicava nei campi metaforicamente fioriti che ospitavano le scorribande di Platini e Rummenigge, basta pensare che un dirigente come Moggi ha compiuto il proprio cursus honorum in quegli anni, basta pensare all’Heysel, alle stragi accadute in Inghilterra e così via. In realtà ci vorrebbe un saggio intero per affrontare tutto quanto. Ma qualcosa si può dire, ecco una breve rassegna sintetica divisa tra Fattori tecnici e Soldi.

Fattori tecnici

Le regole. Nel calcio cambiano con lentezza, l’organismo che scrive le regole (l’International Board) è ultra-conservatore, forse non a torto; eppure qualcosa è cambiato. Guardando adesso una partita del 1982 o 1991 scopriamo tante cose. Una stupidaggine che mi sconvolge ogni volta è la possibilità all’epoca contemplata di passare la palla al portiere e consentire che questi la prendesse con le mani, una regola cambiata nel 1992. Una sciocchezza, forse, che però consentiva ai calciatori di fiatare, di dilatare i tempi, e in alcuni casi di far sbocciare portieri da circo tipo il folle colombiano Renè Higuita. Ancora: i palloni sembrano notevolmente più pesanti e anche un po’ più grandi. L’arbitro ha una divisa a tinta unica, nera. Ma questa è superficie. Il grosso sta da qualche altra parte. Occhio ai corpi: i calciatori sono più piccoli, sembrano più scattanti e meno muscolosi. Juary, Beccalossi, Barbadillo, Mancini, il Vialli della Cremonese e della Sampdoria. Anche i Principi del pallone ’80, Maradona, Falcao e Platini, sono piccoli o esili e sfuggenti. Maradona poi è un miracolo difficilmente comprensibile. Le eccezioni erano prevalentemente rappresentate da calciatori arrivati da una precisa tradizione calcistica basata sullo strapotere fisico, come quella tedesca (Rumenigge, Briegel). Guardiamo le star contemporanee: a parte «la pulce» Messi, che pure fa della velocità continua un suo pezzo forte, Ibrahimovic, Cristiano Ronaldo, Drogba, Maicon, Rooney, Eto’o, Felipe Melo… sono atleti di tutt’altra pasta (e i più forti non giocano in Italia, la vera differenza con i campionati degli anni Ottanta-Novanta). Nella famosa intervista rilasciata da Zeman all’«Espresso» nel 1998, il boemo denunciò la muscolarizzazione esibita e parossistica dei calciatori: al solito si preferì guardare il dito piuttosto che la luna. L’accento esasperato messo sull’aspetto fisico è una conseguenza diretta di una serie di meccanismi tattici: il pressing, ma non solo. I calciatori fanno sempre più della velocità e dello strapotere fisico la propria arma vincente. Le partite disputate trenta o venti anni fa avevano un ritmo notevolmente più lento. Riguardatele, ogni tanto: tocchi brevi, ritmo cadenzato, i calciatori disposti su tutto il campo piuttosto che in pochi metri. Una lentezza e una misura che sembrava misteriosamente contagiare anche i commentatori, suadenti e pacati al contrario dei pazzi isterici che strillano dalle postazioni televisive d’oggi, sostenuti nella gara allo strillo dalla critica televisiva. Quanto ai giorni nostri, senza una preparazione adeguata o un fisico bestiale (ehm) si scoppia. Goran Pandev, di suo non un peso massimo ed evidentemente allenatosi poco o male in estate, si spegne dopo venti minuti (e anche in quei venti fatica ad inserirsi nelle azioni, pur non essendo un brocco). E non è un caso che Pandev sia “spremuto” nel meccanismo di gioco di Benitez, tecnico dell’Inter e ammiratore dichiarato di Sacchi, teorico definitivo del gioco basato sul concetto di intensità, sulla corsa continua, sul moto perpetuo (quel gioco canonizzato dall’Olanda degli anni Settanta). Questo tipo di calcio generalmente porta con sé vantaggi, partite più veloci, scambi vorticanti, ma deprime il gesto individuale, lo spunto geniale, l’invenzione estemporanea. Un calciatore come Giovinco è nel posto sbagliato nel momento sbagliato.

Soldi

Non c’è foto, tra quelle dell’Almanacco scattate sul campo di gioco, che non abbia come sfondo muraglie umane. Gli stadi erano pieni; nell’Almanacco c’è un Milan – Sambenedettese, disputato in B, la gente stipata sugli spalti. È cambiato tutto. Gli sponsor che tingevano le maglie delle squadre ’80 sono timidi genitori delle scritte attuali. Accade che una maglia abbia due-tre sponsor; che una squadra cambi sponsor nel corso della stagione. E gli stadi, be’, gli stadi sono vuoti, pure con le debite eccezioni. È accaduto da qualche parte negli anni Novanta, con l’irruzione definitiva delle televisioni nel calcio, moltiplicatesi negli anni, alcune morte (Stream Tv), altre nate di recente (Dhalia Tv). I soldi pompati dai grandi network hanno arricchito le società più seguite, ma anche i club più piccoli hanno preferito inseguire i compensi televisivi piuttosto che concentrarsi sull’adeguamento degli stadi (obsoleti e inadatti), sul potenziamento del marchio, sulla valorizzazione della storia del club, sul rapporto con i tifosi, a differenza di quello che è accaduto in Inghilterra, Germania, in una certa misura anche in un movimento meno ricco come quello francese. Sul finire degli anni Novanta l’illusione sciocca di presidenti scriteriati era di poter spendere milioni e tenere in piedi una baracca multimilionaria; è l’epoca utopica delle cosiddette «Sette Sorelle»; risultato: il Parma di Tanzi e la Lazio di Cragnotti in bancarotta, la Fiorentina di Cecchi Gori in serie C2, la Roma di Sensi ridimensionata e salvata da non si sa bene quale santo. Anche qui, non occorreva chissà quale scienziato dell’economia per capire che il sistema non poteva reggere sette squadre iper-spendaccione con ricavi risibili basati su un’unica sostanziale entrata, i diritti televisivi. E anche qui, anziché investire il budget in un rinnovamento economico, nella ricerca di altre vie per la sostenibilità economica, si preferì buttare un mare di soldi in ingaggi spropositati e follie insostenibili.

Il resto l’ha fatto la globalizzazione, un fenomeno visibilissimo nel calcio e che ha una data di nascita evidente: la sentenza Bosman, 1995, che consentì alle squadre di calcio di dotarsi di giocatori di ogni nazionalità senza limite, a eccezione degli extracomunitari. In questo senso la logica pure simpatica del «bidone» si è persa. Con tutti i fenomeni da baraccone giunti negli ultimi vent’anni il fascino all’epoca esotico dei brasiliani a Catania o del finlandese a Bologna non ha più senso. Tra gli attaccanti del Livorno, in serie B, figurano un modesto centravanti lituano e una seconda punta argentina da mani nei capelli. Ma come è possibile affezionarsi anche alla scarsezza di questi giocatori, divorati da un magma ribollente di decine di altri scarponi venuti da ogni dove? Chi si ricorderà mai di loro?


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